Meglio che lavorare!
“Un paio di anni or sono sono stato invitato, con altri professionisti di vari settori, ad un convegno organizzato dai soci di un circolo culturale di Brescia. Lo scopo era quello di illustrare la propria professione…” L’industrial designer Gianni Arduini ci racconta il suo punto di vista critico.
Per me è stato quindi semplice affermare che i requisiti necessari per essere un buon designer – o almeno un passabile designer – sono la curiosità e, come recita un pensiero Zen: “distinguere poco tra il proprio lavoro ed il tempo libero, la propria mente ed il corpo e il proprio amore e la propria religione”.
Alla fine anche il pubblico ha fatto delle domande e a me è stato chiesto, da una elegante signora che poi ho saputo avere un figlio che intendeva fare il designer, perché avevo scelto questa strada. La mia risposta è stata: “meglio che lavorare”. Non ho voluto fare una battuta (almeno in parte) ma una dichiarazione d’amore per il design.
Sono fermamente convinto che fare il designer mi ha consentito di interagire, spero positivamente, con la vita di molte persone. Ho iniziato disegnando gioielli e ho poi continuato disegnando televisori, maniglie, macchine per caffè, sanitari, elettrodomestici, strumenti biomedicali, componenti per la domotica e molto altro ancora.
Tutti i miei progetti sono pensati tenendo conto di una utenza ampliata – ora si dice design for all – che molti considerano, erroneamente, una categoria di prodotti a sé stante ma che è un metodo o meglio una qualifica che andrebbe applicata a tutto il design. Diverse sono le metodologie progettuali utilizzate nel campo dell’Industrial Design che si possono applicare al Design for All e che partendo dalle caratteristiche dell’utenza, portano o meglio dovrebbero portare il progettista a prestare una più una attenta considerazione della specificità del progetto.
La metodologia può seguire diversi filoni di pensiero e svilupparsi in diversi modi, tutti più o meno accettabili soprattutto se coerenti con le caratteristiche del progettista o del gruppo di progetto. In seguito allo sviluppo delle tecniche CAD CAM e di prototipazione rapida, si sente parlare e si legge di innovazione nella metodologia progettuale, ma l’idea base, quella che nasce dal cervello del progettista e che, pur con tutti i condizionamenti culturali, produttivi e commerciali che influiscono sul suo sviluppo, rimane il filo conduttore del pensiero progettuale, anche se alla fine il prodotto non avrà quasi niente di quanto inizialmente il progettista si era immaginato.
Non é questa una contraddizione, ma se il progettista é intellettualmente onesto, è una delle possibilità dello sviluppo del progetto stesso. Con il passare degli anni e aumentando l’esperienza mi sono reso conto che tutto, o quasi, può essere progettato for all cercando di fornire all’oggetto quelle caratteristiche formali e funzionali in grado di aumentare la qualità, con un approccio che si avvicina molto al concetto di design etico.
Le definizioni di DfA che fanno capo alle differenti denominazioni sono praticamente identiche e le differenze così piccole che un non un addetto farebbe fatica a capire la necessità di averne così tante. Io sono arrivato a pensare che addirittura sia tempo di ragionare soltanto in termine di design, il design in generale dovrebbe rispettare tutti i requisiti ora richiesti dal progettare secondo il DfA: il coltello per il pane progettato da Maria Benktzon di Veryday è design, lo spremiagrumi di Stark per Alessi è un bell’esempio di styling o di multiplo d’arte.
Fare il designer è quindi molto più che “lavorare” ma vuol dire interessarsi della persona (utente) sia dal punto di vista fisico che intellettivo.
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